UGENTO | Si è svolto nella mattinata di oggi un nuovo interrogatorio. Seduto davanti al pm Simona Filoni il 18enne insieme al padre, i primi che hanno soccorso Giuseppe Basile, consigliere comunale e provinciale dell'Italia dei Valori, assassinato la notte tra il 14 e il 15 giugno scorso, dopo una giornata indimenticabile, in quanto poche ore prima a Santa Maria di Leuca i fedeli hanno assistito alla celebrazione del papa Benedetto XVI e un giorno di festa anche nella cittadina ugentina, in quanto a Ugento si festeggiava Sant'Antonio da Padova. La posizione del giovane, che a settembre compirà 19 anni, potrà essere archiviata. Questo è da decidere ancora. L'accusa rivolta nei confronti dei due, assistiti dagli avvocati Roberto Bray e Antonio Melileo è di false testimonianze nei confronti del pm.
Si continua ad indagare, da nove mesi ormai gli inquirenti lavorano a pieno ritmo per cercare di portare dietro le sbarre gli assassini del povero Peppino Basile. A chiederlo è tutta la comunità ugentina vuole vedere assicurati alla giustizia i responsabili. I legali hanno presentato sul tavolo del magistrato e titolare dell'indagine, Giovanni De Palma, una memoria difensiva. «Da quel giorno, è in corso un altro massacro, perpetrato con armi più sottili e meno cruente ma che, comunque, lasciano ferite ugualmente profonde non solo nel corpo, ma anche nell’animo di chi, catapultato in questa vicenda, subisce quotidianamente le conseguenze delle indagini in corso».
I legali si riferiscono ai loro assistiti, padre e figlio, che da nove mesi, secondo quanto scritto, sono additati come coloro che, pur essendo a conoscenza delle vicende che hanno coinvolto Basile, non intendono fornire il proprio contributo alla ricerca della verità. Questa è la versione dei fatti che, forse, i mass-media hanno fatto intendere. «Siamo sottoposti in continuazione ad interrogatori, a pedinamenti, a controlli, non possiamo più uscire da casa senza avvistare appartenenti alle forze dell’ordine che verificano i nostri movimenti, che fanno domande su di noi». Qualche giorno fa, esattamente il 27 marzo, secondo i legali si è svolto il maldestro tentativo di posizionare all’interno dell’autoveicolo di proprietà della famiglia coinvolta, delle microspie e attrezzature elettroniche, mentre l'auto era in sosta a Taurisano. «Non sappiamo fino a che punto, queste attrezzature, siano state autorizzate, con conseguente danneggiamento dell’autoveicolo. Siamo sorvegliati, ci sentiamo braccati».
Ma non è tutto. Infatti, i legali hanno fatto presente al magistrato che con un macabro tintinnare di manette, nel corso dei vari interrogatori, è stata prospettata la possibilità di una condanna a 20 anni di reclusione nella qualità di possibili concorrenti nella commissione del delitto o, addirittura, come autori dell’omicidio di Basile. Alle due persone, infatti, viene chiesta in continuazione una confessione di colpevolezza. «Noi in effetti siamo colpevoli, siamo colpevoli di essere vicini di casa di Peppino Basile, siamo colpevoli di aver ascoltato le sue ultime grida di dolore e le sue richieste di aiuto, siamo colpevoli, infine, di aver immediatamente, anche se purtroppo inutilmente, tentato di prestare soccorso al poveretto che stava ormai morendo». Probabilmente, se come tanti altri che hanno ascoltato le urla di Peppino, padre e figli fossero rimasti nelle proprie case ignorando quelle richieste di soccorso, facendo finta di non aver sentito, forse i due sarebbero stati trattati in maniera migliore.
Da quella sera, nulla per il paese ma soprattutto per i due è uguale. Era una famiglia tranquilla, che ha sempre vissuto nel rispetto delle leggi e stimata ed apprezzata da tutti i concittadini. «Avevamo la nostra vita fatta rispettivamente di lavoro e di studio ora, ci troviamo coinvolti in una vicenda certamente più grande di noi, non abbiamo più vita privata, siamo additati da tutti con sospetto, vengono in continuazione violati i nostri sacrosanti diritti alla riservatezza ed alla privacy, siamo additati come conniventi, come coloro che sanno e non dicono, forse perché addirittura complici».
Il padre e il figlio appena maggiorenne sono infatti attualmente indagati ai sensi dell’ articolo 371 bis del Codice Penale per aver reso false informazioni al pubblico ministero. Certo, i due non disconoscono che, a seguito dei ripetuti e stressanti interrogatori subiti e dell’incalzare delle domande che a volte presumevano già di conoscere la risposta, siano emerse delle contraddizioni nei loro racconti relativamente a quanto accaduto quella sera, ma è del tutto evidente che quelle apparenti contraddizioni, lungi dal voler rappresentare false dichiarazioni siano semplicemente frutto della concitazione con cui i fatti sono avvenuti e, comunque, semplici imprecisioni su elementi talmente irrisori e secondari che alcun intralcio arrecano al prosieguo delle indagini e che, in ogni caso, non minano ma anzi corroborano la genuinità di quanto dichiarato.
Ovviamente i due ci tengono a rimarcare che sarebbe stato ben più facile, qualora si avesse avuto qualcosa da nascondere, concordare preventivamente le nostre dichiarazioni, sarebbe stato più agevole, elaborare un racconto univoco, scevro di qualsivoglia possibilità di interpretazione ma non è stato fatto, si è preferito raccontato con serenità e con onestà quanto è entrato nella percezione dei due quella notte, consapevoli del loro dovere di collaborare con la giustizia e ben lieti di poter fornire le notizie in nostro possesso con la speranza che, quanto riferito, si fosse rivelato utile per il prosieguo delle indagini.
«Ora, invece, proprio perché vicini, proprio perché i primi soccorritori, dobbiamo necessariamente aver visto o ascoltato fatti e circostanze che rifiuteremmo di raccontare, dobbiamo conoscere gli autori del delitto, dobbiamo necessariamente, con il nostro comportamento, coprire qualcuno o tentare intralciare le indagini. Ci sentiamo annullati, fisicamente e psicologicamente, facciamo fatica anche a condurre le nostre attività quotidiane, privi della più elementare tutela che la giustizia dovrebbe garantire a liberi ed onesti cittadini, violentati nella nostra vita e nei nostri diritti». L'esistenza dei due grazie a questa indagine non è e non sarà mai più la stessa.
Sino ad ora padre e figlio sostengono di aver subito passivamente, ma ora si rendono conto che ciò che doveva essere una brevissima parentesi, si è trasformata una tortura perenne. «Chiediamo rispetto, per le nostre vite e per le nostre persone e confidando ancora nella equità e nella imparzialità della giustizia ci riserviamo però ogni azione a tutela dei nostri diritti e delle nostre persone. Chiediamo immediata tutela con la sospensione di ogni attività lesiva dei nostri diritti di uomini e di cittadini e poiché nel nostro comportamento non è ravvisabile alcuna volontà di dichiarare il falso o di tacere fatti e circostanze da noi conosciute». Viene marcata in maniera chiara la richiesta alla luce delle risultanze processuali, che i Pubblici Ministeri, ai sensi e per gli effetti dell’ articolo 408 del Codice di Procedura Penale e 125 disp. Att. c.p.p. presentino al Giudice richiesta di archiviazione dei procedimenti a nostro carico per palese infondatezza della notizia di reato.
Ora gli inquirenti hanno concentrato le attenzioni nei confronti del 18enne, ma nei prossimi giorni sono attesi altri ragazzi in Procura, che dovranno essere ascoltati.